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"La mente “piccola”

Paola Locci



Il secolo scorso è stato il secolo non solo delle grandi innovazioni tecnologiche, ma anche forse il secolo più importante per quanto riguarda la comprensione dei bambini. Adesso sembra scontato, ma l’idea che il bambino non è un adulto piccolo, e che il pensiero infantile è diverso dal pensiero adulto ha pochi decenni. Un’altra importante scoperta sul tema è che la conoscenza procede per gradi. Come nasce – e si sviluppa – il pensiero in un bambino? La prima esigenza di un piccolo – di qualsiasi specie – è sopravvivere. Provate a pensare ad un aquilotto appena nato che si vede piombare addosso la madre, che potrebbe schiacciarlo con una zampata. L’aquilotto non ha paura: sta tranquillo ed apre il becco, sicuro che non potrà venirgli che qualcosa di buono da quell’enorme creatura che lo sovrasta; eppure non l’ha mai vista prima. Se ne fosse terrorizzato, si butterebbe giù dal nido, o rifiuterebbe di aprire il becco, e quindi morirebbe. Questa fiducia nel primo essere che un piccolo vede appena apre gli occhi alla vita, è innata. Anche il neonato umano è programmato biologicamente a fidarsi delle figure di accudimento che di norma sono i genitori, ma non necessariamente. Ma immediatamente inizia un processo circolare di comunicazione tra il neonato e il contesto, per cui il comportamento del piccolo determina una reazione nell’adulto, che a sua volta determina una reazione nel piccolo, e così via. Questo meccanismo indispensabile alla sopravvivenza è quello che John Bowlby* descrive come sistema di attaccamento. Perché sistema (bisognerebbe ancor meglio parlare di sistemi interagenti)? Perché non solo il bambino sviluppa un proprio modo di relazionarsi con gli altri, in parte innato, ma anche il genitore sviluppa un proprio metodo di accudimento e protezione. Esattamente come il sistema del neonato anche il sistema del genitore è in parte programmato biologicamente e in parte è individualmente differente perché derivato dalle esperienze che l’adulto ha avuto con altri bambini prima di avere un figlio, dall’osservazione del comportamento di altri genitori, e soprattutto dalle esperienze avute da bambino con i propri genitori. Qualche tempo fa, in un documentario televisivo, veniva mostrato il comportamento di adulti (diversi) nei confronti di uno stesso bambino di pochi mesi, vestito alternativamente con una tutina rosa e una azzurra. Ebbene, il comportamento di un adulto convinto di avere a che fare con un maschietto era completamente diverso da quello adottato per una presunta femminuccia. L’interazione reciproca tra bambino e adulto è continua e spesso inconsapevole. Ad esempio, se si osserva una madre che chiacchiera con un’amica, mentre tiene in braccio il figlio per addormentarlo, si vede un continuo scambio di messaggi: la madre getta sguardi rapidi e scanditi verso il figlio, mentre il neonato a sua volta fa dei piccoli movimenti, ad intervalli regolari, chiaramente finalizzati a richiamare l’attenzione della madre, per esserne rassicurato, finché si addormenta. La relazione reciproca è indispensabile al piccolo per acquisire il concetto che le proprie azioni possono influenzare l’ambiente, e questo viene inizialmente appreso tramite le risposte della madre. Ciò è alla base della motivazione, è ciò che spinge un bambino a ripetere dei comportamenti utili o ad evitare dei comportamenti dannosi, ad imitare dei comportamenti, a tentare di risolvere dei problemi, a socializzare, a sviluppare cioè le proprie capacità adattive e a consentire lo sviluppo emotivo e la coscienza di sé. Date queste premesse, è superfluo sottolineare l’importanza cruciale del comportamento degli adulti in queste prime fasi della vita.

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