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Soli per caso?

Paola Locci

E’ estate. Non c’è trasmissione, radiofonica o televisiva, che non parli, quest’anno come tutti gli anni, del problema degli anziani lasciati soli. Si fanno paragoni strazianti tra i cani abbandonati sulle autostrade e i vecchi abbandonati negli ospizi o – non si sa se meglio o peggio – nelle loro casette solitarie. Si lanciano accuse cariche di riprovazione e disprezzo ai figli degeneri che lasciano soli i loro poveri vecchi genitori per andarsene in vacanza. Si mostrano spot in cui dolcissime vecchiette e teneri vecchietti sorridono mentre danno briciole agli uccellini o accarezzano un bambino. E’ una triste verità. Ma spesso non è tutta la verità. La verità, di cui nessuno parla, perché è una verità antipatica, scomoda, è che dietro ogni anziano c’è stato un adulto, un giovane, un marito e padre (o moglie e madre). Voglio dire che non si diventa diversi solo perché si è invecchiati; possono accentuarsi certe caratteristiche, possono intervenire piccoli cambiamenti tipici dell’età, come una maggiore diffidenza verso le cose nuove, o una maggiore insicurezza, ma non tali da snaturare completamente l’indole di una persona. Si tende a considerare "gli anziani" come una categoria omogenea, come "i giovani" o "i cinesi". Li si tratta generalmente come se fossero tutti fragili, indifesi. Ci si predispone a sfoderare un’infinita pazienza e a non prenderli troppo sul serio; gli si urla nelle orecchie come se fossero tutti sordi; negli ospedali le infermiere li chiamano nonno e nonna. Si dà per scontato che sono – sempre e comunque – rimbambiti. Quando conosciamo un anziano da anziano, difficilmente ci chiediamo che persona è stata, che vita ha condotto, come si è comportato con gli amici, nell’ambiente di lavoro, nel condominio, dentro casa sua. Che tipo di genitore è stato per i propri figli. Li ha veramente voluti, capiti, coccolati, protetti, amati? Ho conosciuto persone che hanno sacrificato la parte più bella della loro vita per accudire i genitori anziani. Li hanno tenuti con sé, rinunciando a volte persino a farsi una famiglia propria. Altri rinunciano solo alle vacanze, al proprio scarso tempo libero, a frequentare gli amici, perché l’anziano genitore "ha bisogno di compagnia", e a casa "ha bisogno di tranquillità". Spesso sono felici di fare questi sacrifici perché hanno in cambio la possibilità di stare ancora vicino a persone a cui sono legati da profondo affetto, da riconoscenza, da ricordi bellissimi e preziosi. Di questi genitori e di questi figli, in fondo fortunati, non si parla mai. Ci sono poi casi meno fortunati. Conosco una persona che si è occupata del padre vedovo da quando lui aveva sessant’anni - ed era in ottima salute - fino ai 98: solo negli ultimi anni aveva veramente necessitato di assistenza. E questo padre sempre, e non a causa della demenza insorta solo alla fine, era stato un uomo non particolarmente cattivo, ma egoista, capriccioso, prepotente, che aveva reso la vita impossibile a tutti quelli che gli stavano intorno. Bisognerebbe essere capaci di perdonare, ma è una gran bella impresa finché abbiamo ancora davanti una persona che continua ad essere egoista, capricciosa, prepotente… Potrei citare anche decine di storie in cui, senza arrivare ad atti eroici, i figli intervengono ogni volta che ce n’è veramente bisogno, che accorrono in caso di malattia, o di altri problemi gravi. “Però questo fa parte dei doveri di un figlio!” – possono dire i soliti moralisti della morale altrui – “Per gli anziani non basta l’assistenza, ci vuole qualcosa in più, compagnia, ascolto, affetto!” Ma per fare quel qualcosa in più, per portarsi un genitore a vivere a casa propria, a condividere la propria vita rinunciando a parte della propria libertà, oppure in vacanza, tenendo necessariamente conto delle sue esigenze, il senso del dovere non basta. Ci vorrebbe amore. Ma l’amore non si inventa, non si compra, non si impone per legge. Mia madre diceva “Amore con amor si paga”. Come si fa a giudicare un figlio che non può o non vuole occuparsi, più dello stretto necessario, dei propri vecchi? E' veramente insensibilità, ingratitudine, malvagità? Cosa ne sappiamo di tutta la sua vita precedente, che tipo di relazione ha avuto con i genitori, se e quanto affetto e comprensione ha ricevuto. Nella mia professione vedo, e a volte mi sembra quasi di toccare, l’invisibile sofferenza incamerata in certe infanzie, certe adolescenze. Ci sono ferite che non si rimarginano mai. Ci sono adulti che continuano per tutta la vita a sentire il vuoto di una carezza non ricevuta, di un sorriso di conforto aspettato invano, di quel minimo di rispetto che dovrebbe appartenere di diritto a ciascun essere vivente. Eppure i genitori di queste persone sono sempre convinti di aver fatto il massimo per i loro figli: li hanno nutriti, li hanno vestiti, li hanno mandati a scuola, perbacco! E quel qualcosa in più? Ogni volta che vedo un anziano solo, mi domando: non ha proprio più nessuno? O forse non è solo per caso...

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