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 “Honni soit qui mal y pense (Edoardo III d’Inghilterra)

Paola Locci

Non intendo annoiare con disquisizioni teoriche su “proiezione”, “identificazione proiettiva”, e altri complessi meccanismi che caratterizzano la psiche umana (per questo ci sono trattati ed enciclopedie), ma mi servirò come sempre di esempi pratici e pescati dall’attualità, per ragionare sulla tendenza ad attribuire ad altri idee e sentimenti propri. Meccanismo sano e indispensabile all’empatia, ma che rischia di produrre interpretazioni distorte della realtà quando genera presupposti automatici e deduzioni arbitrarie. Di recente sono stata coinvolta, mio malgrado e per l’ennesima volta, in un “dibattito” politico in un contesto che avrebbe dovuto essere di stampo disciplinare, cioè attinente alla mia professione. Quando ho dichiarato che non intendevo partecipare al confronto, ho dovuto incassare le rimostranze di chi affermava che il mio pensiero, proprio perché differente, costituiva una ricchezza di cui stavo privando i miei interlocutori. Il presupposto sottinteso era questo: “io credo – quindi tutti credono – che la ‘disponibilità al confronto’ sia un valore; devi ascoltare tutti e confrontarti, sempre e con tutti; altrimenti non sei disponibile, sei snob ed arrogante”. Traspariva la granitica credenza che tale presupposto sia universale e indiscutibile. Se un individuo vede il confronto non come un dogma ma come “strumento” della conoscenza, da utilizzare scegliendo i momenti, i contesti, e soprattutto le persone con cui confrontarsi, viene immediatamente accusato di scegliersi solo interlocutori compiacenti. Escludere che qualcuno possa essere abbastanza onesto da operare una scelta di qualità e non di convenienza, svela un altro presupposto: “io non mi darei mai la zappa sui piedi, perché dovresti farlo tu?”. Altro esempio di attribuzione automatica di proprie convinzioni ad altri. E’ delle scorse settimane una significativa situazione venutasi a creare in un famoso talent show in cui si sfidavano due squadre. Una squadra era caratterizzata da un scelta di strategie volte a conquistare la vittoria eliminando i più bravi dell’altra squadra. Si può discutere se sia più o meno onorevole vincere non sul merito ma evitando la sfida con gli avversari più pericolosi, ma quello che più faceva impressione (almeno a me) era l’evidente incapacità di credere alla buona fede di chi, nell’altra squadra, giocava in modo diverso, arrivando ad esprimere la propria ammirazione per la bravura degli antagonisti. E’ sincero? E’ falso? Sta recitando? Beh, nessuno ha espresso il minimo dubbio. Bisognava “smascherare” il gioco ipocritamente buonista dell’avversario, secondo questo presupposto: “se tu nemico dici di apprezzarmi e persino mi applaudi, non puoi essere sincero; infatti io, che non sono ipocrita, non lo farei mai. Quindi io sono quello nobile e tu quello falso che vuole ingraziarsi il pubblico”. Come se fosse impossibile anche concepire l’esistenza di una diversa mentalità. Per la cronaca, quando il vero o presunto buonista si è arrabbiato per questi attacchi, ed è diventato (quasi) cattivo, i suoi detrattori hanno potuto dire che avevano ragione a pensare che fingeva. Eppure, ad evitare lo scontro - peraltro probabilmente auspicato dagli autori della trasmissione - sarebbe bastato mettere in dubbio il presupposto. In un lontano periodo della mia vita ho fatto teatro. Ad un concorso nazionale fui premiata con la medaglia d’argento. L’oro andò ad una ragazza di un gruppo milanese; avevo vent’anni e lei 26; avevo assistito al suo spettacolo e mi aveva commosso; io ero brava, ma lei lo era di più, era più matura, più esperta. Era giusto così e lo dissi con sincerità. Ma era normale, io non ero una “nobile” eccezione; infatti nessuno pensò che la mia ammirazione fosse una captatio benevolentiae e, se pure qualcuno lo avesse pensato, si sarebbe vergognato della propria meschinità. Il presupposto, allora largamente condiviso, era: “la lealtà e l’onestà intellettuale sono valori; se vogliamo che gli altri ci considerino onesti e leali, dobbiamo essere disposti a fare altrettanto”. Vorrei essere smentita su questa mia impressione, ma mi sembra che oggi, rispetto ad un passato non troppo lontano, ci sia una crescente tendenza ad interpretare con malignità atteggiamenti altrui onesti, leali o generosi, bollandoli come ipocriti e anormali. D’altronde come si possono attribuire ad altri convincimenti e intenti positivi, quando, pur inconsapevolmente, se ne ha una personale carenza o se ne è del tutto privi? Forse anche i meccanismi psicologici più naturali risentono della cultura e del clima sociale dominante? Forse i buoni sentimenti sono stati aboliti con la messa al bando del libro Cuore? Bisognerà imparare ad esprimerli sottovoce e di nascosto, in qualche segreta carboneria? Sì, anch’io ho detestato Cuore e Piccole donne e Capitani coraggiosi, nella mia adolescenza, nel tempo della ribellione e della “contestazione”. Ma, come per altri bambini incautamente buttati via con l’acqua sporca, ora sento per quelle pagine edificanti e un po’ retoriche una tenerezza e una nostalgia che non sono solo frutto dell’età.

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