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La strategia della scorciatoia

Paola Locci


Ieri ho rivisto una vecchia cassetta sui campionati del mondo di pattinaggio artistico su ghiaccio. Come sempre, questo spettacolo incredibile di bellezza, forza, eleganza mi ha dato una grande gioia. La stessa gioia che provo quando assisto ad un buon spettacolo teatrale o quando ascolto musiche meravigliose già immortali o destinate a diventare tali. Quante ore, giorni, anni a volte, ci sono dietro a tali risultati? Quanta fatica, sudore, tenacia, amore? E’ buffo come anche nella lingua, l’essere umano riesca ad essere incoerente. Prendiamo la parola PERFEZIONISTA: lo Zingarelli 2000 recita “chi pecca di perfezionismo”. PERFEZIONISMO: “aspirazione a raggiungere, nell’ambito della propria attività o del proprio lavoro, un impossibile ideale di perfezione”. Ma per PERFEZIONARE si intende: “rendere completo in ogni sua parte, portare ad un elevato grado di compiutezza”. Infatti PERFEZIONAMENTO significa “completamento di qualcosa in tutte le sue parti, miglioramento, specializzazione” (spesso usato nell’accezione di corso o scuola di approfondimento). In altri termini, l’opinione collettiva ritiene positivo il voler migliorare, approfondire, ma il termine che connota l’atteggiamento di chi ha questa aspirazione ha una sfumatura decisamente negativa. Prova ne è che non esiste un appellativo che indichi la persona “che fa le cose bene”, anzi al meglio possibile, volendo dare per scontato che “la perfezione non esiste”. Su quest’ultimo concetto ci sarebbe molto da discutere, dal momento che un conto è parlare di perfezione morale, un conto è parlare di perfezione relativa al raggiungimento di obiettivi specifici e ben delimitati. Ad esempio, prendiamo un percorso ad ostacoli in un concorso ippico: il cavallo che riesce a saltare tutti gli ostacoli, senza sfiorarne nemmeno uno, che non sbaglia percorso, che fa un tempo migliore degli altri, ha raggiunto la perfezione, ovviamente in relazione ai criteri fissati convenzionalmente nell’ambito di quel preciso contesto. E’ chiaro che il discorso non riguarda l’eleganza, o lo stile, o la bellezza dell’animale (o del fantino), perché in quel caso entrano in gioco categorie ben difficilmente definibili e tanto meno quantificabili, se non nelle griglie ristrette costituite da precise caratteristiche che vengono elette a criteri di valutazione convenzionalmente accettati e condivisi. Non mi intendo di cavalli, ma immagino che sia più elegante un cavallo che non scalcia e non scuote la testa, e che delle zampe lunghe ed elastiche siano più belle di zampe tozze e rigide (ma forse sto applicando dei criteri un po’ troppo umani!). Tornando al punto, penso che l’essere umano trovi una grande soddisfazione nel fare le cose bene, nel senso di riuscire ad esprimere il massimo delle proprie potenzialità, di raccogliere sfide e vincere battaglie, al punto tale che quando non è la vita a presentare le occasioni, è l’uomo stesso che le cerca e le inventa, per scoprire e superare i propri limiti. L’immensa felicità dipinta sul volto di quei pattinatori, o di un Michael Flatley al termine del suo eccezionale spettacolo, o di un Cocciante quando parla commosso della sua Notre Dame, non è data dalla popolarità o dal successo di pubblico (falso obiettivo agognato dalla maggior parte degli adolescenti di oggi): è la stessa stupenda e stupita gioia che si legge sul viso di un bambino che è riuscito per la prima volta ad allacciarsi le scarpe, o del giovane che riceve i complimenti dalla commissione di laurea, o della casalinga che ha realizzato una meravigliosa torta. La cosa che accomuna tutte queste situazioni è la soddisfazione che deriva dalla consapevolezza di aver raggiunto un risultato che è il massimo che si potesse ottenere, relativamente al contesto ma soprattutto alle proprie capacità e possibilità. Ultimamente ho la sgradevole impressione che pensarla in questo modo sia giudicato stupido e démodé. La tendenza attuale più diffusa è quella di faticare il minimo, giudicando poi il risultato (qualunque esso sia) eccezionale, incredibile, fantastico. Come se bastasse ornare con dei superlativi una cosa brutta, mediocre, raffazzonata per trasformarla in un capolavoro. E il dramma è che avendo perduto molti termini di paragone, veramente questa società si sta sempre più convincendo che qualunque cosa sia sufficiente per pretendere il “giusto” riconoscimento altrui: non importa se un cantante canticchia, o un ballerino ballicchia, o un giornalista ignora allegramente l’esistenza di grammatica e sintassi, o un politico non si sogna nemmeno lontanamente di vergognarsi - come dovrebbe! - della propria ignoranza e incompetenza. Ancora una volta, le parole, invece di aiutare a chiarire, aiutano… la confusione. Tempo fa ho sentito rivendicare il titolo di “artista” persino da una cubista! Ma davvero basta fare un mestiere di spettacolo per essere definiti “artisti”? Si è cantanti, anche bravissimi, si è attori, anche eccelsi, si può essere ottimi scrittori, eccellenti musicisti, ma gli artisti sono pochi e non può che essere così, altrimenti come potremmo definire Mozart o Picasso o Eduardo? Ma veniamo alla vita dei comuni mortali: gli studenti ad esempio, anche quelli bravi, fanno acrobazie per studiare il minimo indispensabile, per contrattare le interrogazioni con gli insegnanti, per strappare sconti su compiti ed esami, come se la finalità dello studio non fosse quella di trarne il massimo vantaggio possibile per la propria vita, il proprio futuro, ma sia invece di arrivare ad uno straccio di promozione che porti presto ad uno straccio di pezzo di carta, senza troppe rotture di scatole. Chi non è più giovanissimo ricorda che persino le giuste – inizialmente – rivendicazioni del ’68 sono state poi strumentalizzate per ottenere un avvilente, penoso “18 politico”: forse è cominciata proprio nell’epoca dei giovani “impegnati”, paradossalmente, questa assurda corsa al disimpegno. Lo stesso disimpegno che molti di loro, una volta diventati genitori, hanno trasmesso alle generazioni più giovani. Queste persone, apprezzabilissime per altri versi, pensano con incrollabile ostinazione che per formare un figlio basti proteggerlo da ogni problema, piazzarlo davanti all’ultimo modello di play-station, purché non disturbi, regalargli il motorino se – bontà sua – riesce a farsi promuovere, o magari predicargli di continuo quello che deve o non deve fare, senza curarsi minimamente di come la propria filosofia di vita possa essere recepita ed assorbita. Quanti posti di lavoro sono stati ottenuti tramite raccomandazione o concorsi truccati? E quanti diplomi, e addirittura certe lauree, sono stati conseguiti seguendo delle scorciatoie? A questo punto io chiedo: almeno queste persone, una volta raggiunto quello che vogliono, sono contente? Sono soddisfatte di sé? Dal mio particolare angolo di osservazione, direi proprio di no. E allora cos’è che non va? Perché questo inquietante diffondersi - a tutti i livelli - di questa strategia della scorciatoia? Perché privarsi della gioia e della soddisfazione che possono derivare da un lavoro ben fatto, dalla conoscenza approfondita di un qualsivoglia argomento, dalla competenza vera e non approssimativa o millantata su qualcosa che ci interessa veramente? Alcuni pensano che il giudicare più gratificanti i traguardi raggiunti con fatica rispetto a quelli “regalati” sia un fatto culturale (quella cultura molto cristiana tutta improntata al sacrificio) e come tale lo criticano e lo relativizzano. E se invece fosse una necessità “intrinseca” dell’essere umano quella di mettersi alla prova e di trarre soddisfazione dai risultati ottenuti con i propri sforzi? Si potrebbe ipotizzare che tale meccanismo è indispensabile all’evoluzione, oppure che fa parte di un disegno superiore e complesso, di cui i credenti di varie fedi pensano di conoscere l’artefice; oppure ci si potrebbe appellare alle varie teorie psicologiche che studiano la forza dell’Io o l’autostima. Chissà... Lascio queste difficili risposte a chi ne sa più di me. Io posso solo suggerire, ed è il mio augurio sincero a tutti per il nuovo anno: provare per credere...

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