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L’OSTRICA E LA PERLA

 LA RESILIENZA IN ETA’ EVOLUTIVA

Tamara Marchetti




Introduzione
In questo contesto, il tema della “resilienza” non verrà trattato all’interno di un processo di educazione del piccolo alla resilienza stessa, quindi come allenare in forma preventiva il bambino nella relazione con la sofferenza, quanto piuttosto, si prenderà in considerazione la tematica, partendo da un punto di vista dell’osservazione e supporto durante lo stressor. Capita infatti che il minore si trovi improvvisamente a far fronte ad un evento negativo paranormativo, che lo coinvolge in modo diretto. E’ quindi importante soffermarsi sulla sofferenza del qui ed ora che il bambino vive e, lo faremo come riportato di seguito, nel campo dell’oncologia pediatrica, nel contesto della separazione genitoriale quando il bambino è in età prescolare e, la separazione da un genitore in trattamento presso una struttura pedagogico - riabilitativa per le tossicodipendenze. 

La resilienza è…

Con il termine “resilienza”, s’intende la reazione di un corpo all’urto e quindi, la sua capacità a riassumere la forma iniziale. Diversamente dal campo della fisica, in psicologia dove il soggetto di studio non sono i materiali, ma l’uomo, si pone l’attenzione sull’urto come vissuto, ovvero come “sentimento”. Il sentimento è ciò che si prova a livello emotivo a seguito di un evento, di una situazione dolorosa che provoca una reazione che si definisce resiliente quando si fa fronte in maniera positiva a difficoltà anche notevoli. La capacità di reazione positiva consiste nel non soccombere all’evento, ma reagire ad esso, affrontandolo in maniera tale che la vitalità interiore non ceda totalmente alla sofferenza o al dolore causato dall’evento negativo. Vivere un evento doloroso, comporta nella specie umana un’evoluzione che per dirla con le parole di Lidia Ravera (scrittrice contemporanea), quando il suo effetto finisce “..si è quelli di prima, ma diversi da prima”. Affrontare il dolore, vivere la sofferenza, sono necessariamente processi trasformativi, tanto più se l’incisione provocata dall’urto avviene in tenera età. Gli studi sulla resilienza hanno una lunga storia che inizia nella metà del xx secolo e, a tutt’oggi è al centro dell’interesse scientifico internazionale. La resilienza è un concetto allargato e complesso, che coinvolge l’individuo nella sua interezza bio-psichico e sociale, congiuntamente con i fattori culturali e comunitari. Richiede l’identificazione con quei fattori di rischio e protezione che potrebbero minare o promuovere un positivo adattamento delle convinzioni che ciascuno attribuisce a se e agli obiettivi che intende perseguire per il raggiungimento del proprio benessere. La resilienza è più della semplice la capacità di resistere alla distruzione proteggendo il proprio io da circostanze difficili, è un processo dinamico in cui è richiesto l’adattarsi con successo a situazioni di vita stressanti non ostante esperienze di avversità e traumi significativi vissuti in prima persona. Questo approccio mette in evidenza l’importanza delle risorse o dei punti di forza di un individuo nelle proprie capacità di autoriparazione per la sopravvivenza. La resilienza è ad personam, nasce cioè da un evento critico soggettivo o vissuto soggettivamente, in quanto non per tutte le persone gli eventi della vita sono ugualmente percepiti, entro una certa soglia e fuori da quella, si può dire che solo la capacità di reazione è diversa a quelli che sono oggettivamente eventi nefasti. Nel caso dell’infanzia, il bambino resiliente è colui che vive nel disagio della sofferenza e della messa in crisi della sua serenità in un’età in cui, il proprio bagaglio formativo, nell’abilità ad evitare cadute, è piuttosto sguarnito, sono esperienze profondamente sofferte che lasciano una scia per la vita futura. La resilienza nella propria malattia terminale in età prescolare, nella separazione di una bimba di 4anni e mezzo anni per un anno dal padre tossicodipendente e, affrontare la separazione dei propri genitori sempre in tenera età come nel caso di Giulia e Carlotta, sono eventi infausti, che noi analizzeremo per la capacità resiliente che accomuna questi bambini appartenenti ad una stessa fascia di età. I bambini resilienti, cercano terze figure alle quali appoggiarsi per reagire all’evento traumatico di: separazione dalla figura maschile di riferimento che si è allontanata, dall’armonia familiare perduta a causa dell’insorgenza della malattia, oppure dalla coppia genitoriale che il bambino non vede più insieme dovendosi relazionare con loro in forma separata. Il terzo è colui che può fornire un supporto importante anche a livello di identificazione per il bambino in difficoltà, il quale pur essendo piccolo, reagisce comunque allo stressor secondo le proprie risorse. Il terzo è di solito esterno al contesto familiare e si tratta di operatori che organizzano spazi ludici in ospedale come nel nostro primo caso, la scuola materna nel secondo e, l’educatrice della scuola materna nel terzo con un’attività svolta insieme alla bimba. Come afferma Polacek, la resilienza a seguito di eventi traumatici subiti nell’infanzia, lascia una traccia mnestica nella vita adulta del soggetto, il quale muove tra risorse potenziate ai massimi livelli nella capacità all’auto difesa, ma anche resistenze alla serenità. Il bambino resiliente trova il coraggio nei giusti punti di appoggio per andare avanti senza soccombere alle difficoltà, ma impara anche a lottare e capisce prima di altri coetanei che la realtà non è ad immagine e somiglianza dei suoi bisogni e desideri. Si assiste quindi ad una durata ben più breve del pensiero onnipotente e di una visione magica del mondo. Le figure educative nella scuola, possono ben incarnare questo ruolo di figure di appoggio o “tutori”, come tutti coloro che a qualche livello operano con l’infanzia. Passiamo ora a focalizzare il tema della resilienza passando da una definizione generale, a tre casi specifici trattati nell’ambito della professione clinica. 

Barbye nella casa di Peter Pan. 

I suoi familiari la chiamavano Barbye per i suoi occhi azzurri ed i lunghi capelli biondo platino. Quando la conobbi io, la bionda chioma non c’era più e, due occhioni azzurri spiccavano come fari in un viso pallido e rigonfio dal cortisone assunto, aveva soli 5 anni e nella casa di Peter Pan tra un ricovero e l’atro, frequentava la scuola materna. Berbye, non perdeva mai il suo entusiasmo e gioia di vivere, anche nei periodi di degenza al reparto di oncologia pediatrica, gioiva all’arrivo degli operatori dell’adiacente Casa di Peter Pan, che recavano un po’ di sollievo con l’organizzazione di momenti ludici. Barbye era una delle poche tra i bambini ricoverati che aderiva sempre al gioco anche se a volte era stanca, non si abbandonava al letto e faceva di tutto per stare in compagnia e nel gioco. Quando arrivavano i clawn, voleva vestirsi come loro per fare il giro delle altre stanze e giocare con i bambini del reparto. Era vivace ed animata anche se il corpo esprimeva la sofferenza della malattia, ma quell’espressione un po’ buffona che spasso aveva, sembrava fargli venire nelle gote il colorito del benessere. Un giorno poi, nella stanza della scuola materna, disegnò se stessa con il suo testone pelato e di fronte, come in una cornice di uno specchio sempre lei con i suoi lunghi capelli platino. Se ad un primo pensiero pensammo che volesse ritrarre com’era, subito cambiammo idea, perchè Barbye non aveva cambiato percezione di sé, pur consapevole della malattia e della sofferenza lei voleva al più presto tornare ad essere quella di sempre. Alla maestra disse: “quando guarirò torneranno i miei capelli, anche mia cugina è stata a lungo in ospedale per un dolore alla gamba, poi è tornata a casa e sta bene”. Barbye è un esempio importante di un caso clinico relativo ad una bambina resiliente che ha reagito con costante determinazione ad un evento altamente stressante, dove la morte è ad un passo dalla vita e, il dolore fa da ponte. Dopo 10 anni precisi dalla sua deospedalizzazione, la rividi, i genitori ritrovarono il mio numero nell’agenda di quell’epoca e mi contattarono per chiedermi se ero disposta ad un incontro con Barbye per una eventuale psicoterapia. Barbye non era più la ragazzina vivace e senza capelli che io conoscevo, ma una bella ragazza che come aveva tanto desiderato, i capelli erano di nuovo lunghi e folti, con il suo spirito goliardico, aveva ripreso a vivere la vita normale, ma voleva rincontrarmi per un aiuto a vivere fino in fondo quella “normalità” che gli si era ripresentata. Voleva non vergognarsi di relazionarsi all’altro sesso, aveva 15 anni e logicamente era il periodo di inviti a feste e divertimenti, anche di conoscenze di ragazzi che lei però evitava vistosamente. La resilienza aveva contribuito a non mandare in frantumi il suo sé, ma oggi viversi l’adolescenza nel confronto più diretto nel gruppo dei pari e con l’altro sesso era impegnativo e fu ciò su cui andammo a lavorare. 

Il nido sfasciato di Giulia e Carlotta.

Giulia aveva 4 anni, mentre Carlotta, la sorella, sarebbe nata dopo tre mesi dalla separazione tra la madre ed il padre. Come afferma Anna Oliverio Ferraris la separazione comporta la separazione dal coniuge, ma non da i propri figli e, questa è una straordinaria verità almeno in termini teorici. E’ però altrettanto vero che la separazione dei genitori quando il bambino è molto piccolo, produce uno stressor altamente potente, in quanto lo sviluppo evolutivo si struttura sulla mancanza di basi solide e, la reazione resiliente può protrarsi per l’intero ciclo evolutivo, ovvero per tutta la vita. Giulia era vissuta per quattro anni con una madre ed un padre uniti che coabitavano sotto allo stesso tetto, avevano una vita in comune. Poi un giorno, la madre scopre messaggi di un certo tipo nel cellulare del marito, il quale conferma di avere da qualche mese una relazione con una donna che non intende lasciare. Dunque lui va a vivere provvisoriamente nel suo ufficio, Carlotta nel grembo della mamma smette di crescere, mentre Giulia, si chiude in un mutismo totale. Passano i mesi, la situazione tra la madre ed il padre non cambia, nasce Carlotta, è sottopeso e per quasi un mese rimane in incubatrice. Giulia è il solito fantasma, non parla a casa, ma solo quando è alla scuola materna, ride gioca e si scatena. Poi, quando arriva in casa Carlotta, si sa che i fratellini più piccoli attirano le attenzioni principali dei parenti e, Giulia, non si fida più neanche di andare a scuola, rimane a casa, chiusa nel suo silenzio e non cambia atteggiamento. Passarono un paio di mesi e se Giulia non parlava, Carlotta non faceva altro che piangere e gridare, il pediatra disse alla madre che si trattava di una concausa della tensione in cui la piccola si era sviluppata in epoca fetale e poi al momento della nascita. D’improvviso una sera, Giulia tirò fuori il suo cestino con cui andava a scuola, lo consegnò alla nonna materna e le chiese di accompagnarla il giorno dopo a scuola. Giulia da quel giorno non tornò in dietro, fece passi da gigante, iniziò a comportarsi una donnina in miniatura, andava a scuola, aiutava la mamma ad occuparsi di quella sorellina che Giulia vedeva come piccola e indifesa. Sicuramente il rischio per Giulia era una crescita troppo rapida, ma è quel che sempre accade come afferma Polacek, quando il bambino subisce da piccolo il divorzio dei genitori, di solito i danni riportati sono forti e, si ripercuotono nelle relazioni importanti della propria vita adulta. Va però messo in evidenza come, la capacità resiliente in Giulia, l’abbia portata a sviluppare un vissuto adattivo alla frustrazione accrescendo le sue potenzialità, piuttosto che soccombere al dolore. A volte infatti, il rischio di questi bambini è proprio lo sviluppo di patologie comportamentali e della personalità, quali espressioni sintomatologiche. 

Separazione da un genitore in riabilitazione tossicologica. 

Questa è la storia di Chiara, una bambina di 4 anni e mezzo, che ha un rapporto speciale con Gregorio, suo papà, non ostante lui sia cocainomane, il rapporto con sua figlia, non è mai stato trascurante come spesso accade quando c’è la problematica della droga. Al contrario il loro era forte e fusionale anche se logicamente alterato dalla sostanza. Un giorno poi Gregorio fermato dai carabinieri con un quantitativo elevato di coca, venne arrestato. Dopo tre giorni di carcere l’avvocato riuscì ad ottenere per lui la misura alternativa con l’affido ad una struttura riabilitativa. In tutto Gregorio rimase in comunità un anno e, durante le prime visite parenti, Chiara piangeva e si straziava al momento della separazione dal padre, poi la mamma con dedizione gli spiegò che il papà era in quella clinica per star bene, perché prima era sempre stanco e molto indaffarato, invece, quando sarebbe tornato a casa, avrebbe avuto più tempo per stare con loro in pace e serenità. La visite al padre da parte di Chiara migliorarono, lei lo stava aspettando il giorno che sarebbe tornato a casa e intanto, smise di avere quei problemi insorti di enuresi. Insieme alla maestra della scuola materna, Chiara stava facendo un lavoro che l’affascinava e impegnava molto al contempo. Comperarono una grande scatola dorata e, dentro ogni giorno Chiara metteva un pensierino sia scritto oppure, qualcosa fatto da lei come una tartaruga in cartone, una farfalla e una coccinella, rappresentative della sua famiglia dove il papà era la tartaruga con il guscio grande e spesso, mentre lei era la farfalla. In questo modo a livello simbolico, Chiara proseguiva giorno per giorno la sua relazionalità con il padre e, immaginava il giorno che avrebbe consegnato a lui quella scatola, quanto sarebbe stato contento che lei non lo aveva mai lasciato da solo. Anche questo è un esempio di resilienza, dove l’infante si è ingegnato trovando una modalità di reazione all’evento traumatico. 

Considerazioni conclusive.

La metafora dell’ostrica e della perla, deriva da quanto accadde a seguito del processo per fagocitosi nel crostaceo, dove a seguito dell’ingresso della sabbia nell’ostrica (evento stressor), ne deriva l’espulsione, attraverso la produzione della perla. Allo stesso modo, la resilienza nell’essere umano, è la capacità di regger botta, tanto da avere una reazione adattiva al trauma. Se non c’è un’educazione esplicita oppure anche implicita, ad esempio attraverso il modello imitativo, alla resilienza, il bambino piccolo potrebbe non svilupparla, trovandosi a vivere passivamente piccoli o grandi traumi. Come è possibile notare, nei casi riportati sopra, ogni bambino pur se in tre contesti di vita completamente diversi, hanno attinto alle proprie risorse interiori, sviluppando la resilienza come strumento per affrontare il difficile momento di vita presentatosi in tenera età. In modalità schematica si possono riassumere nel modo che i segue i vari meccanismi resilienti. 1. Introspezione = capacità di esaminare se stessi; 2. Indipendenza = capacità di mantenersi ad una certa distanza; 3. Iniziativa = capacità di capire i problemi, affrontarli e riuscire a controllarli, CASO di GIULIA: 4. Creatività = capacità di creare ordine, bellezza e obiettivi partendo dal caos e dal disordine, CASO di CHIARA; 5. Il senso dell’umorismo = la disposizione dello spirito all’allegria, CASO di BARBYE; 6. L’autostima = come frutto dell’autoefficacia percepita, sia della consapevolezza di essere amati incondizionatamente.
Queste caratteristiche sono raggruppabili in due ambiti principali: quello delle caratteristiche personali quali, autonomia, autostima e orientamento positivo, oltre alla planful competence, cioè la capacità di pianificare le scelte importanti della vita, per il raggiungimento degli obiettivi e, questo magari in un’età più matura.

Riferimenti bibliografici

. Tamara Marchetti, raccolta appunti relativi all’esperienza di volontariato (1998-2001), presso reparto di Oncologia pediatrica Bambino Gesù di Roma, con associazione: “La Casa di Peter Pan”;
. Convegno didattico “Vulnerabilità vs Resilienza ”, organizzato a SPIM (scuola di psicoterapia integrata e musicoterapia); Roma 08 aprile 2010.

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