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       Sono
      le dieci, è sabato. Qui ci siamo solo io e i due muratori, Antonio e
      Pasquale. Antonio mi è buon amico, sono stato a casa sua due o tre volte.
      Abbiamo appena preso il caffè, io sono appoggiato al muro e fumo una
      sigaretta, il capo non mi ha lasciato molto lavoro da fare questa mattina.
      Antonio e Pasquale stanno lavorando con una sparachiodi a pistone su un
      massiccio muro di cemento armato. Quell’aggeggio è potente, non per
      niente ci si mettono in due ad usarlo. Uno lo regge di lato e lo tiene
      fermo nel punto in cui deve sparare, l’altro sta dietro a sostenere la
      pressione di ritorno; il rimbalzo è pericoloso.
      
      Loro mi chiamano e scherzano e fanno delle battute. Oggi è sabato, mezza
      giornata, siamo tutti un po’ più felici. Ma io non ho tanta voglia di
      scherzare. Mi volto e guardo la via. In un attimo sento una botta seguita
      da un grido, mi giro e li vedo immobili come se avessero assistito a chissà
      quale miracolo. Sul fianco sinistro di Antonio si sparge una grossa
      macchia umida, è sangue, lui la guarda, poi ci mette una mano sopra e si
      accascia. Il chiodo è fuoruscito e l’ha beccato con tutta la forza del
      rimbalzo. Pasquale è sano, prende l’auto, solleviamo Antonio e lo
      mettiamo sui sedili posteriori. Io resto dietro con lui, Pasquale guida.
      Antonio sta zitto e respira lentamente, è diventato bianco, io gli parlo
      ma so che non mi ascolta. Mi domando che preghiera stia recitando.
      
      Sono le sedici, è domenica. Sono all’ospedale con la mia ragazza. Lei
      è fuori, seduta sulle sedie in corridoio, non lo conosce molto bene
      Antonio. Io sono nella stanza a parlare con lui, sua moglie è andata via
      da poco. Dice che stamattina sono venuti a trovarlo il capo con i ragazzi,
      è tutto a posto, non ci sono problemi per nessuno, lui ha detto ai medici
      che si è fatto male mentre faceva dei lavori nella propria casa. Mi
      chiede se domani posso fargli il favore di andare in un negozio di
      giocattoli a comprare una BARBIE per sua figlia che compie quattro anni,
      poiché lui non può farlo perché è bloccato in quello schifoso letto.
      Gli rispondo che lo farò senz’altro. Lo lascio un po’ e vado fuori, a
      sedermi vicino a lei. Sta leggendo un libro di Raymond Carver. Quando mi
      siedo si mette a cercare una specifica pagina, la trova e se ne mette a
      leggere un pezzo a voce alta:
      
      “Frank Martin tira fuori le braccia e prende una boccata dal sigaro.
      Lascia che il fumo gli defluisca piano dalla bocca. Poi con il mento
      accenna ai monti e dice: ‘Jack London aveva una bella casa dall’altra
      parte di questa valle. Proprio lì dietro a questa collina che state
      guardando. Ma l’alcool lo ha ucciso. Vi serva di lezione. Era migliore
      di chiunque di noi, ma non sapeva trattarla quella roba. Se avete voglia
      di leggere qualcosa mentre ve ne state lì, leggete quel suo libro, IL
      RICHIAMO DELLA FORESTA. Lo conoscete? L’abbiamo, caso mai vi venisse
      voglia di leggere qualcosa. Parla di una bestia mezzo cane e mezzo lupo.
      Fine della predica.’ dice, e poi si tira su i calzoni e giù il golf.”
      
      Finisce di leggere. Alza la testa e mi guarda. Non capisco se vuole farmi
      una predica, se vuole suscitare la mia attenzione o se vuole che esprima
      un’opinione. Forse non lo sa che quelle pagine le conosco già
      abbastanza bene. E’ una bella ragazza, ma a volte non capisco cosa le
      passi per la testa. Le chiedo se crede di trovarsi a qualche reading di
      narrativa, e le ricordo che di là, nella stanza, non c’è nessun Carver
      e nessun London e nessun Hemingway e nessun Faulkner, ma semplicemente un
      muratore amico mio che si è fatto male, e che quindi farebbe meglio a
      chiudere quel libro e a piantarla. Poi gli consiglio di ascoltare un po’
      di energico e onesto HARDCORE invece di stare sempre a leggere, e lei mi
      risponde che l’HARDCORE l’ha già ascoltato quando aveva diciassette
      anni e che non ha più bisogno di ascoltarlo, poi mi fissa con uno sguardo
      che sta a metà fra la sfida e la delusione. Io mi alzo e mi dirigo verso
      la porta della stanza, mi volto e vedo che ha riposto il libro nella borsa
      e mi fissa ancora con quello sguardo che non comprendo. Allora fanculo.
      
      Entro nella stanza e trovo Antonio piantato rigido nel letto. Guarda la
      televisione che sta sulla mensola. Sullo schermo si susseguono le immagini
      di sensuali ciak dedicati ad alcune delle fotomodelle più famose; e lui
      se ne sta lì nel letto con la faccia schifata, un fianco bucato, due
      costole fratturate e gli occhi vuoti. Sembra uno di quei reduci del
      Vietnam che si vedono nei film di guerra americani. Gli vado vicino e gli
      dico che la Madonna Assunta gliela poteva evitare questa, ma lui mi
      risponde che ringrazia Dio che gli è andata così, ed io gli porgo la
      mano. Domani gli andrò a comprare la BARBIE per la figlia.
      
      Antonio è un po’ come me, è per questo che mi sta simpatico. Non
      ascolta nessuna musica e non legge niente, ma a me non frega un cazzo di
      questo. Da un po’ di tempo pare che il toccasana migliore per le nostre
      menti sia prendere le cose con ironia, ridere di questo e ridere di
      quello, già, non farla tanto pesante, tutti sdrammatizzano su tutto. Noi
      invece non sdrammatizziamo un bel niente perché la vita almeno fino ad
      oggi ci pesa, e noi con il nostro comportamento instabile e cocciuto ce la
      facciamo pesare molto più del dovuto. La mattina ci svegliamo con la
      bocca amara, e siamo capaci di alzare le mani perfino sulle persone a cui
      vogliamo del bene.   
        
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