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Umanizzare la medicina

Raffaele Crescenzo

 

Abstract

Si deve tener conto della persona, della sua umanità, della sua cultura, della sua dignità attraverso il dialogo, l’ascolto e la costruzione del progetto di cura. Questo progetto inizia con la presa in carico del paziente, con la prima visita alla quale si dedica il tempo necessario che il caso richiede, ascoltare il paziente e il suo vissuto lo fa sentire accolto e non  abbandonato.  In modo inconsapevole si immagina di ridurre tutta la drammaticità dell’esperienza della malattia ad un fenomeno puramente biologico. Si dimentica la globalità della domanda del paziente che si manifesta con bisogni non sempre espressamente dichiarati, che sempre si accompagnano alla richiesta di cura e di assistenza.

 

 

La diffusa istanza di una più umana medicina sembra oggi invocare meno tecnica e meno scienza. La scienza va arricchita con il sapere delle relazioni, che non è esterno alla professione medica, ma dovrebbe esserne parte costitutiva. Dobbiamo ricordare a noi stessi che il medico non ha di fronte un meccanismo complesso da aggiustare, ma un suo simile, una persona che soffre, spera, sogna, progetta, assalito dalla disperazione e dalla paura proprio come lui. Ci ricorda Karl Jaspers che “l’agire del medico poggia su due pilastri: da un lato la conoscenza scientifica e l’abilità tecnica, dall’altro l’ethos umanitario”.[1] Tutto ciò, fa ritenere che la crisi del rapporto medico-paziente sia una conseguenza della modernità e postmodernità. Invero, l’incontro tra medico è paziente, è storia non recente e la testimonianza dello scrittore russo Tolstoj, in un suo lavoro scritto verso la fine dell’800, è esemplare. Egli descrive l’incontro fra il protagonista, Ivan Il’ič, Consigliere di Corte d’Appello a San Pietroburgo, e un noto luminare della medicina: “Egli ci andò. Tutto fu come si aspettava. Tutto come sempre avviene. L’attesa in camera, il tono d’importanza dottorale che egli conosceva , perché era lo stesso che usava in tribunale, i colpetti delle dita, l’auscultazione, le domande che richiedevano risposte predeterminate e inutili e quell’aria solenne che diceva: voi non dovete fare nulla, affidatevi a noi, facciamo tutto noi, noi sappiamo bene, infallibilmente, quello che si deve fare, chiunque voi siate, tutti gli uomini vanno presi alla stessa maniera. Esattamente come in tribunale. Il noto dottore teneva verso di lui lo stesso contegno che Ivan Il’ic teneva in tribunale verso gli imputati.     ( ……). Per Ivan Il’ic una sola cosa era importante, sapere se la sua situazione era grave oppure no. Ma il dottore ignorava quella richiesta inopportuna. Dal suo punto di vista era una domanda oziosa che non meritava considerazione. (…). Dalle parole del dottore Ivan Il’ic si crea la convinzione di essere molto ammalato. E capì che la cosa non importava un gran che al dottore e in fondo nemmeno agli altri. Ma lui stava male. La scoperta lo ferì dolorosamente, suscitandogli un sentimento di pena verso se stesso e di rabbia verso il dottore, indifferente a una questione tanto importante. Tuttavia non fece commenti, si alzò , depose i soldi sul tavolo e sospirando disse soltanto:- Probabilmente noi malati rivolgiamo spesso domande fuori luogo. Ma questa malattia è grave o no? Il dottore gettò uno sguardo severo da un occhio solo, attraverso gli occhiali, come a dire: imputato, se non rimanete nei limiti delle domande che vi vengono poste sarò costretto a farvi allontanare dall’aula. – Vi ho già detto ciò che ritengo utile e necessario – rispose il dottore -. Il resto sarà rivelato dalle analisi- e con ciò si inchinò.”[2] Si deve tener conto della persona, della sua umanità, della sua cultura, della sua dignità attraverso il dialogo, l’ascolto e la costruzione del progetto di cura. Questo progetto inizia con la presa in carico del paziente, con la prima visita alla quale si dedica il tempo necessario che il caso richiede, ascoltare il paziente e il suo vissuto lo fa sentire accolto e non  abbandonato.  In modo inconsapevole si immagina di ridurre tutta la drammaticità dell’esperienza della malattia ad un fenomeno puramente biologico. Si dimentica la globalità della domanda del paziente che si manifesta con bisogni non sempre espressamente dichiarati, che sempre si accompagnano alla richiesta di cura e di assistenza. Dunque, “(…) è necessario ancorare ad un centro gli orientamenti medici di base, l’organizzazione della clinica, le scelte terapeutiche e la loro articolazione alla ricerca. Questo consiste nell’assumere, senza deliri di onnipotenza ma in modo scientificamente rigoroso e liberamente coinvolto, la domanda del paziente (…)”.[3] In quanto “(…) il ruolo della scienza in medicina è chiaro. La tecnologia scientifica ed il ragionamento deduttivo sono il fondamento della soluzione di molti problemi clinici. Eppure, l’abilità nelle applicazioni più avanzate di laboratorio e di farmacologia non fa, di per sé, un buon medico. Si deve essere capaci di identificare gli elementi cruciali di una complessa storia(…)”[4]. Non può unicamente coincidere con l’applicazione di  protocolli, non è possibile demandare alla medicina il compito di fornire ogni soluzione soltanto mediante la medicalizzazione. Si pone il problema della persona e del senso che essa attribuisce alla sua propria, individuale, unica, esperienza di malattia ed, inevitabilmente, il processo terapeutico, assistenziale e decisionale deve tener conto delle aspettative e delle preferenze del paziente. Negli ultimi tempi, l'attenzione si è spostata verso il paziente, ma la malattia ha continuato ad essere l'interesse primario della medicina, nonostante ne coinvolga l'intera persona, tutti gli aspetti della condizione umana, fisica, personali, psicologici, sociali e spirituali. Which impairments will come to the person's awareness in any instance, be most intrusive or important, follows from the nature of the illness, the particular person, and context (context refers to the social, political, technological, religious, and physical environment that exists outside of us). Le conoscenze e le competenze della medicina devono essere indirizzate non solo verso la malattia, ma anche verso l’uomo malato con la convinzione di  “(…) Sentire la sua confusione, o la sua timidezza, o la sua ira o il suo sentimento di essere trattato ingiustamente come se fossero propri, senza tuttavia che la propria insicurezza o la propria paura o il proprio sospetto si confondano con i suoi”. [5]  Sickness and its manifestations are inextricably bound up with the phenomenon of meaning.La malattia e le sue manifestazioni sono in modo inevitabile collegate al fenomeno del significato. Everything that happens to people; objects, events, relationships, every sight and sound, everything that happens in or to the body is given meaning.Tutto ciò che accade alle persone o al corpo ha un significato. Meaning has cognitive, physical, emotional, and spiritual aspectUn significato che ha un impatto su ogni dimensione di persone: cognitivo, fisico, emotivo e spirituale. Thus, meanings have an impact on every dimension of persons.Quindi, “Il significato è il mezzo, l'agenzia di intervento, che riunisce tutti gli aspetti della malattia e delle sue menomazioni, con la persona malata”. [6] In other words, people do not act because of events, things, circumstances, or relationships; they act because of their meanings. L'importanza della centralità del significato è che lo stesso può  essere mutevole insieme alla realtà vissuta e vista dal paziente;   pertanto, “occorre convincere questi uomini (….), che buona parte del significato della loro stessa vita consiste appunto nel vincere nell’intimo le loro contingenti infelicità (…), nel mostrare che sono all’altezza del loro destino anche quando è avverso. I nostri ammalati potranno giungere a considerare la vita come valore (….), solo se insegneremo loro a dare un contenuto e uno scopo alla loro esistenza: in altri termini ed in breve (…) Chi ha un perché per vivere, sopporta qualsiasi come”.[7] 

Una In the US, person-centered medicine has come to denote medicine that is focused on the patient's goals, expectations, and needs as determined by the patient. Una UUUU medicina centrata sulla persona capace di concentrare l’attenzione sulle   aspettative e le esigenze determinate dal pazienteIn the words of the Institute of Medicine of the National Academy of Science, it is a medicine “that is respectful of and responsive to individual patient preferences, needs, and values.” This defines an accommodating and benevolent medicine but it is not the person-centered medicine that arises from consideration of both the nature of persons and of sicknes, rispettosa e sensibile dei suoi bisogni e valori, di "vivere il dolore degli altri, dei pazienti (…) prenderne coscienza nella sua entità fisica e psicologica (…) distinguere il dolore dalla sofferenza, mentre spesso ci concentriamo sul dolore fisico e trascuriamo la sofferenza e qui sta la differenza fra curare la malattia e curare il malato".[8] 

Una benevola accoglienza, un’alleanza tra medicina e pedagogia può rispondere ai bisogni specifici educativi, comprendere, rispettare e valorizzare i diversi cammini di conoscenza e di crescita.  Occorre dare  preminenza  e  soddisfacimento ai bisogni specifici d’ascolto, di comunicazione, di relazione interpersonale, di emozione, di attenzione, di movimento, d’integrazione ed, infine, di apprendimento. Bisogni i quali, se non soddisfatti, sfociano in un disagio  diffuso a livello individuale, familiare e sociale che riveste le forme di solitudine e di  allontanamento dalle proprie capacità e risorse latenti.  Un rapporto di comunicazione tra medico e paziente che richiede la capacità del primo di comprendere i tempi di cui il malato ha bisogno per comprendere la diagnosi, per individuare i meccanismi di difesa e di adattamento e di percepire la reale volontà del paziente, al fine di poter partecipare “attivamente” e consapevolmente alle scelte terapeutiche. Torna utile riportare ciò che Cassel ha recentemente scritto: “Trentacinque, quarant’anni fa era accettabile pretendere che il contesto, la malattia e altre persone, benevoli o meno, non avessero alcun impatto sull’autonomia. O che possano esistere delle scelte totalmente indipendenti. Queste idee...nascono da una visione della condizione umana paragonata ad atomi individuali che si muovono nelle proprie orbite e sono tanto sbagliate quanto il modello scientifico positivista e atomistico sulla quale sono basati. Il compito è sviluppare una comprensione delle persone e delle loro relazioni che possano formare delle basi intellettuali e teoriche per un etica futura e contemporanea”.[9]   

Dunque, la natura dialogica del processo decisionale medico, è parte integrante del ruolo e della responsabilità del sanitario nei confronti del paziente. Il rapporto non può essere ridotto alla semplice elencazione delle possibili cure. Invece bisogna assicurarsi che i pazienti capiscano le opzioni e apprezzino le implicazioni che esse hanno per se e per la loro comunità.[10] L’ impegno pedagogico è dunque diretto a creare una relazione in cui il medico tenga conto della globalità della persona che ha di fronte e del suo modo di vivere la malattia, con un preciso richiamo alla dimensione soggettiva della sofferenza.  C’è bisogno di una pedagogia dell’ “avvicinamento all’altro” per allontanare il malessere esistenziale, per un maggiore tempo di ascolto umano ed attenzione, per mettere in pratica uno spazio di aiuto reciproco e di discussione  per il superamento delle paure e dei conflitti interpersonali, in quanto “nella persona vi è una forza che ha una direzione fondamentale positiva. Più l’individuo è capito e accettato profondamente, più tende a lasciar cadere le false "facciate" con cui ha affrontato la vita e più si muove in una direzione positiva, di miglioramento”.[11]

Occorre uno sguardo di più ampio respiro alla biografia della persona considerata nella pienezza della sua natura biopsicosociale, la qualità della sua vita, i suoi progetti, le sue emozioni e i suoi sentimenti. Bisogna ovviare a quella “amputazione biografica” che presume di definire “la malattia(…) pura fatalità, (…) che avviene senza nessuna connessione con dati antropologici”.[12] Nel continuo e costante progresso delle tecnologie mediche c’è anche una sorte di allontanamento del significato di malattia inserito nel contesto esistenziale delle persone coinvolte, determinando e sviluppando così “la patologia dell’ascolto: quella incapacità di porsi in atteggiamento di condivisione del vissuto dell’altro(..)”, una crisi delle relazioni interpersonali che sviluppa “(..) la malattia dell’ascolto e la sua morte, crisi che attanaglia l’individuo e lo emargina, specialmente se sofferente”.[13] Vi è, dunque, l’indispensabilità di una pedagogia dell'ascolto che guarda il paziente come risorsa nel percorso di cura, distante dal pensare che egli sia un semplice insieme di sintomi o portatore di bisogni. Sostiene Gadamer che “Imparare ad ammettere la malattia: forse questo è uno dei più grandi cambiamenti del nostro mondo civile, che pone nuovi compiti ed è stato provocato dai progressi della medicina. Deve pur significare qualcosa il fatto che il medico oggi sappia apparentemente far svanire per incanto così tante malattie, al punto che esse scompaiono con facilità senza aver insegnato nulla al paziente.(….) Il sostegno migliore che gli esseri umani possano trovare per se stessi consiste, secondo me, nell’imparare ad accettare davvero la condizione di reciproca dipendenza che caratterizza l’esistenza di tutti”.[14] Il paziente può assurgere alla funzione di vero e proprio consulente, l’esperto che aiuta il professionista a modulare le proprie decisioni, con lo scopo di aiutare i malati è trovare un significato per la loro sofferenza, una finalità e una direzione dignitosa all’intimo dolore esistenziale al fine di “ (…)rendere attiva la vita dei nostri malati, di fare in modo che essi passino dall’atteggiamento di “patiens” a quello di “agens”, (….)per realizzare valori; (…)dimostrare loro che il compito cui debbono dedicarsi e della cui attuazione ed esecuzione sono responsabili, è un compito specificatamente personale”.[15] In tal senso, si afferma fortemente il processo relazionale dell’atto medico la cui essenza è costituita – come ci insegna Paul Ricoeur[16] – dal “patto di fiducia”. Infatti la relazione tra malato e medico inizia attraverso un patto di fiducia reciproca, in cui il malato descrive i propri sintomi e la propria sofferenza e chiede la guarigione; pertanto il medico accoglie il paziente, fa una diagnosi e prescrive la cura.       A questo punto il patto di cura diviene una sorta di alleanza tra il medico e il malato contro il nemico comune “la malattia”.   Particolarmente significativi sono i tre precetti indicati da Ricoeur come costitutivi del “patto delle responsabilità”, che riconoscono il carattere singolare della situazione di cura e la singolarità del paziente; l’indivisibilità della persona, difatti non si curano gli organi malati, ma un essere umano nella sua totalità; la cura della stima in sé del malato. Infatti il malato non deve mai essere messo in condizione di perdere la stima in sé e la propria dignità di essere umano. Ricouer evidenzia che è compito del medico creare un clima di alleanza con il paziente contro la malattia, cercando di coinvolgerlo psicologicamente e moralmente, in modo che il paziente diventi partecipe della sua cura, al fine di evitare che    l’evoluzione dalla medicina clinica a quella tecnologica determini un sempre più un progressivo distacco del medico dal paziente ed un impoverimento antropologico. Scrive Karl Jaspers[17]: “La scienza viene trasmessa mediante l’insegnamento, in modo esplicito, nella misura più ampia possibile. L’umanità del medico, per contro, si tramanda grazie alla sua personalità, impercettibilmente, istante dopo istante, attraverso il suo modo di agire e di parlare, attraverso lo spirito che regna in una clinica, in quell’atmosfera silenziosa e pur tacitamente presente che è necessaria all’esercizio della professione medica. L’insegnamento va pianificato e si fa via via più chiaro, didatticamente migliore. La ricerca scientifica accresce il sapere e l’abilità. Si fa più critica e metodica. L’umanità, al contrario, non è pianificabile. Torna a svilupparsi nuovamente, senza alcun progresso fondamentale, in ogni medico, in ogni clinica, grazie alla realtà stessa dell’uomo medico”. Ed ancora il filosofo tedesco sottolinea come “Attraverso l’intimità con i suoi malati, il medico perviene, nella sua sobrietà, all’esperienza umana. Di fronte al bisogno egli giunge, nella pratica, alla visione filosofica, all’eterno, quella visione che, sola, sa volgere in bene il progresso. Il medico che costringe il ricercatore presente in lui a essere cosciente dei propri limiti, che attraverso la riflessione cede la guida al filosofo che è in lui, di fronte ai pericoli mortali provocati dalle conseguenze della tecnica e dei fuochi fatui, potrebbe trovare, per conto di tutti, la via che conduce fuori dalla prigione del limitato pensiero intellettivo. Forse è ai medici che spetta lanciare il segnale…”, nel ricordo della frase ippocratica: "non mi interessa che tipo di malattia ha quell’uomo, ma che tipo di uomo ha quella malattia". Invero, oggi la medicina moderna cerca la verità   nell’oggettività, mediante un modello  che comporta   perdere di vista l’ "uomo malato ". E’ necessario, per una società tendente a sottoporre la vita umana al dominio scientifico e tecnologico, che alla base di tutto ci sia il dialogo tra medico e paziente, che faccia strada   a  relazioni  umane  cariche di sentimenti e valori, un impegno costante alla comprensione ed all’ascolto dell’altro. C’è l’aspettativa che medici curino i propri pazienti, dove "Curare vuol dire palpare, ossia tastare con la mano il corpo del malato, con attenzione e sensibilità, in modo da percepire le tensioni e gli indurimenti definiti dolore, che forse confermano o correggono la localizzazione soggettiva effettuata dal paziente”.[18]  L’ esplicitazione di Galimberti è fortemente chiara, "per lo sguardo medico la malattia ha un decorso e un esito, mai un senso"; in quanto "lo sguardo medico non incontra il malato, ma la sua malattia, e nel suo corpo non legge una biografia ma una patologia, dove la soggettività del paziente scompare dietro l'oggettività dei segni clinici, che non rinviano ad un ambiente, ad un modo di vivere, ad una serie di abitudini contratte, ma ad un quadro clinico, dove le differenze individuali, che si ripercuotono nella evoluzione della malattia, scompaiono”.[19] Sostiene,altresì, Galimberti: “Se gli uomini non sono cose il modo in cui sono al mondo e il senso che il mondo assume per loro sono causa di malattia, non meno delle componenti fisico-chimiche che lo sguardo clinico, per le regole imposte dal metodo scientifico che lo esprime, individua come uniche cause. Percorrendo questa via, ciò che è possibile accertare sono i fatti, non i significati, la successione causale non la produzione di senso, l’ordine della spiegazione non l’ordine della comprensione”.[20] Una comprensione finalizzata non soltanto alla gestione medica della patologia, ma ad un dialogo che conduce ad un’alleanza terapeutica, nella quale la persona malata è in attesa di beneficio in virtù di un’opera di ascolto del proprio vissuto. Una richiesta di aiuto accolta mediante “(…) una relazione in cui almeno uno dei protagonisti ha lo scopo di promuovere nell’altro la crescita, lo sviluppo, la maturità ed il raggiungimento di un modo di agire più adeguato ed integrato(…). In altre parole una relazione di aiuto potrebbe essere definita come una situazione in cui uno dei partecipanti cerca di favorire, in una o ambedue le parti, una valorizzazione delle risorse personali del soggetto ed una maggiore possibilità di espressione” (Rogers,1970). Da queste convinzioni, la medicina “deve recuperare quella credibilità di scienza al servizio dell’uomo sofferente, (..) in grado di decodificare i segnali più criptati di richiesta di aiuto, di scienza in grado di fornire risposte operative valide (…..)”(Petiziol,1997).

Gadamer, invita a riflettere su quanto sia accaduto oggi con la scienza moderna e con la sua universale e assoluta oggettività. Egli dedica grande attenzione alla tanto auspicata “arte della salute”.[21] La medicina deve operare su singoli pazienti, deve ampliare lo spazio umanitario degli interventi, l’”uomo malato” deve  poter contare nella sua interezza in modo che “(…) I confini tra il mondo della scienza e quello della vita vengono tuttavia a cadere. Quando si tratta dell’applicazione di conoscenze scientifiche alla proprie salute, non si può venire curati soltanto dal punto di vista scientifico”.[22] Un modello che fa del medico un “tecnico”, che semplifica l’iter diagnostico-terapeutico, che ritiene non rilevante la componente soggettiva della malattia, in quanto è più facile curare l'organo malato che non la persona malata nella sua globalità. Ed allora “Cosa è la salute?” si chiede Gadamer e formula questa risposta: “Sappiamo approssimativamente in cosa consistono le malattie, in quanto sono per così dire caratterizzate dalla rivolta del "guasto". Si manifestano come oggetto, come qualcosa che oppone resistenza e quindi va spezzato (...). La salute, invece, si sottrae curiosamente a tutto ciò, non può essere esaminata, in quanto la sua essenza consiste proprio nel celarsi”.[23]  Nessuna attenzione per gli altri aspetti presenti nella relazione tra medico e paziente. Il rapporto dialogico deve dire basta alla centralità della malattia, deve consentire al medico di condividere col malato la condizione di sofferenza, in quanto “fa parte della medicina non solo la lotta vittoriosa contro la malattia, ma anche la convalescenza e in fondo la cura della salute” [24].

Quindi, il rapporto medico-paziente non può che svilupparsi in maniera positiva, conducendo ad un giusto intervento in una forma di dialogo che coinvolge entrambi, in cui “(…) nessuno ha il sopravvento in quanto è il dialogo stesso a coinvolgerci tutti”[25].  Ascoltare gli altri  deve essere la capacità di "Prestare ascolto ad ogni voce e lasciare che ci dica qualcosa: questo è l'arduo compito che ogni uomo trova di fronte a sè. Ognuno ha il dovere di ricordarsene, ma ricordarlo a tutti(…)", una vera e propria indicazione di comportamento per noi tutti a cui spetta il compito di "realizzare una organizzazione delle energie umane per trovare un equilibrio che corrisponda a quello della natura"[26].  Il medico, però, deve andare oltre l’oggetto specifico del suo sapere e della sua capacità pratica,  egli deve riuscire a conciliare la sua vita professionale con l’impegno umano che essa comporta, laddove il paziente ha bisogno di essere considerato in tutta la situazione complessiva della sua esistenza. Bisogna sempre tener presente che siamo tutti uniti in un unico mondo della vita che ci sostiene rapportandoci reciprocamente l’un l’altro; per cui il compito di ciascuno di noi e del medico, in special modo, così come di qualsiasi altro scienziato, è quello di tenere uniti, da un lato, “(…) la competenza altamente specializzata”, dall’altro, il proprio “(…) far parte del mondo della vita”[27]. Una più umana medicina che deve “(……) riportare l’attenzione dei sistemi dei servizi(..) sull’utente(…) per riportarlo in posizione di centralità”.[28] Rafforzare il concetto della centralità del malato, attraverso l’umanizzazione, significa fortificare l’idea che l’uomo va assistito e curato nella sua globalità e “(…….) soprattutto da un lato considerare e tenere insieme le molteplici dimensioni ed esigenze dell’uomo, comprese quelle nascoste, nella loro globalità, non riducendo il paziente all’organo o alla funzione fisica, psichica, relazionale malata, compromessa”.[29] Una visione del malato da assistere e curare nella sua globalità che viene da molto lontano “Tutti i mali e tutti i beni(….) provengono al corpo e all’uomo dall’anima, dalla quale affluiscono come dalla testa agli occhi: bisogna dunque curare in primo luogo e soprattutto quella, se la testa e il resto del corpo devono star bene”.[30] Alla base di questa filosofia resta sempre il rispetto dell’essere umano sofferente, l’attenzione a tutto quello che si può e si deve fare, alla vita del paziente, privilegiandone gli aspetti qualitativi e arricchendo ogni suo istante di significati e di senso; la capacità di ascoltare, dare presenza, restaurare i rapporti umani, entrare in rapporto emotivo con pazienti e familiari e di saper riconoscere i  propri  limiti come  curanti, recuperando il senso profondo della medicina come scienza ed arte per la salute psicofisica dell’essere umano. Il medico ed il malato, ha scritto Jaspers, “si trovano uniti da un legame prevalentemente umano (……) gli accadimenti patologici del suo malato hanno un senso che egli deve comprendere. Il medico può instaurare con il malato una comunicazione esistenziale che oltrepassa ogni terapia. Medico e malato sono allora entrambi uomini(…). Il medico, ora, non è più un semplice tecnico, né un’autorità, ma un’esistenza per un’esistenza, un essere umano transeunte insieme ad un altro essere umano transeunte”.[31] Anatole Broyard, sulle problematiche psicologiche e spirituali di fronte del cancro, ha scritto about the psychological and spiritual challenges of facing metastatic prostate cancer."Per il tipico physician,” he wrote, “my illness is a routine incidentmedico la mia malattia è un incidente di routine nel suo giro, mentre per me è la crisi della mia vita. Mi sentirei meglio se avessi un medico (.......) Vorrei solo (........), solo una volta, essere legato con me per un breve spazio(…….) per arrivare alla mia malattia (..) ogni uomo è malato nel suo modo suo".[32]

Il malato ha bisogno di sicurezza dalla minaccia psico-fisica della malattia; bisogno di autostima e rispetto della dignità del proprio essere, che implica il non sentirsi un peso e la necessità di essere ancora apprezzato nonostante le difficoltà dovute alla malattia.

 

 



 [1]Jaspers K., Il medico nell’età della tecnica, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1995.

[2] Tolstoj L., La morte di Ivan Il'ic, Garzanti Libri, 2008.

[3] Scola A., Se vuoi, puoi guarirmi. La salute tra speranza e utopia, Editore Cantagalli 2001

[4] AA. VV., What is expected of the physician. The practice of medicine. Harrison’s Principles of Internal Medicine, 2001.The dominant theory of sickness for the past two centuries has been that when someone is sick it is because of disease or injury.

[5] Rogers C. R., (1951) - La terapia centrata sul cliente – La Meridiana Ed., Molfetta, 2007.

[6] Reference Cassell EJ., La natura della sofferenza e degli obiettivi della medicina, Oxford University Press, 2004.

[7] Frankl V.E., Logoterapia e analisi esistenziale, Ed. Morcelliana, Brescia, 1977.

[8] Veronesi U., Avrei una domanda da fare a Dio, Intervista Sette, Suppl. a Corriere della Sera,  2001.

[9] Cassell EJ, Domande senza risposta: la bioetica e le relazioni umane, Hastings Center Report, 2007.

[10] Sullivan WF, Come distinguere tra decisioni colpevoli e decisioni etiche giuste alla luce del rifiuto di cure per il prolungamento della vita: il ruolo dell’informazione medica, Accademia Vita, Assemblea generale, 2008

[11] Rogers C., “La terapia centrata sul cliente”, Martinelli Editore, Firenze,1970.

[12] Navarro-Valls J., Limmagine del malato di mente, in Dolentium Hominum – Disagio della mente umana -, n. 34, Anno XII, n. 1, 1997.

[13] Petiziol A., Malattia e morte dell’ascolto: il dramma della solitudine, in Dolentium Hominum – Disagio della mente umana -,       n. 34, Anno XII, n. 1, 1997.

[14] Gadamer H.G., Dove si nasconde la salute, Raffaello Cortina, Milano 1994.

[15] Frankl V.E., Logoterapia e analisi esistenziale, Ed. Morcelliana, Brescia, 1977.

[16] Ricoeur P., Il giudizio medico, Morcelliana, Milano 2006

[17] Jaspers K., Il medico nell’età della tecnica, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1995

[18] Dove si nasconde la salute, ivi, pag. 118.

[19] U. Galimberti, Idee, il catalogo è questo, Feltrinelli, 1992

[20] U. Galimberti, La casa di psiche. Dalla psicoanalisi alla pratica filosofica, Feltrinelli, 2005

[21]  Gadamer H.G., Dove si nasconde la salute, Milano 1994, Cortina

[22] Dove si nasconde la salute, ivi, pag. 1.

[23] Dove si nasconde la salute, ivi, pag. 107.

[24] Dove si nasconde la salute, ivi, pag. 118.

[25] Dove si nasconde la salute, ivi, pag. 145.

[26] Gadamer H.G, L' eredità dell'Europa, Editore Einaudi, 1991.

[27] Dove si nasconde la salute, ivi, pag. 112.

[28] Ranci Ortigosa E., Umanizzazione e organizzazione dei servizi psichiatrici, in Dal Santo della carità al diritto alla salute, Atti del convegno, Cernusco, Ed. Fatebenefratelli, 1996, pag. 97.

[29] Ranci Ortigosa E., pag. 98.

[30] Platone, Carmide, in Dialoghi filosofici, Torino, UTET, 1978, vol. I.

[31] Jaspers K., Il medico nell’età della tecnica, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1995

[32] Broyard A. Intoxicated bymyillness: and the life and death otherwritingson New York: Ballantine, 1992.

 

 

 

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