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LA COMUNITA' PSICOTERAPEUTICA RESIDENZIALE E IL SUO CAMPO MENTALE


di LUIGI D’ELIA

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IL LAVORO CON LE FAMIGLIE E LA PRESA IN CARICO DELLE MULTIAPPARTENENZE DELL’OSPITE DI CT

LA SEPARAZIONE
Abbiamo detto in precedenza, tra le definizioni di contesto della CT, della discontinuità del rapporto paziente/famiglia che in ogni caso si viene a creare con l’ingresso dell’ospite in CT. Tale discontinuità non significa in alcun modo sradicamento, riazzeramento e reinfetazione dell’ospite nella CT, come in alcune realtà comunitarie avviene nella speranza che alla rigida separazione fisica dalla famiglia corrisponda anche una separazione psichica ed un’emancipazione maturativa, ma si tratta di un progetto che avviene col consenso di tutte le parti in causa: paziente, famiglia, CT, servizio inviante, che sono qui intesi tutti come clienti del servizio della stessa CT e nodi di un’unica rete. È dunque una separazione puramente “strategica”, non assoluta, che non assume certo i caratteri di radicale frattura o peggio di abbandono da parte della famiglia, ed è una separazione a cui di per sé non consegue né alcuna certezza terapeutica, né alcun cambiamento interno del paziente. Ricordiamo infatti con Torricelli (1997, 1998) che: <<L’allontanamento del paziente dal suo contesto originario, infatti, per quanto comporti la separazione fisica, non costituisce tuttavia una soluzione di continuità rispetto al meccanismo familiare di strutturazione della psicosi, come dimostra tutta la pratica manicomiale: in mancanza di stimolazioni dall’esterno la famiglia semplicemente “si ristrutturerà sull’assenza” del paziente designato, ma sempre e comunque all’interno delle regole e delle modalità relazionali usate in precedenza, lasciando così di fatto immodificate la condizioni che sostengono la sintomatologia psichiatrica>>. Senza il consenso esplicito e l’alleanza di paziente e famiglia, riguardo la proposta progettuale della CT, risulta a mio parere vano e velleitario ogni tentativo terapeutico, così come risultano ingestibili quelle situazioni per le quali non è consentito al paziente di contattare e rivedere la famiglia, considerata, a torto o a ragione da parte degli operatori della CT, la fonte patologica e l’origine di tutti i problemi del paziente. Quando gli operatori colpevolizzano la famiglia (anche soltanto implicitamente) è già probabilmente in atto una dinamica collusiva (che però alcune volte appare un passaggio obbligato) che di fatto ostacola la comprensione del paziente e lo svolgimento del percorso.

LE STORIE
La prospettiva che qui viene proposta è quella che parte dal considerare la famiglia ed il paziente di cui fa parte, come il punto di arrivo di una lunghissima storia di cui nessun membro della famiglia, e il paziente meno che mai, è veramente e consapevolmente portatore, ma soltanto “esecutore”. Il paziente è dunque l’ultimo capitolo di una trama transgenerazionale che appare sconosciuta. A fronte di questa impossibilità di visualizzazione da parte dei membri della famiglia delle vicende e delle connessioni storiche, gli operatori della CT dovrebbero fare attenzione ad entrare nel mondo familiare del paziente con la massima circospezione come converrebbe che facesse chiunque entrasse in un territorio inesplorato. Risulta dunque che le storie familiari di cui sono rappresentanti gli ospiti della CT, sono quasi sempre storie che ad un certo punto s’interrompono, o meglio ancora, sono storie che s’impantanano in territori di non-senso, conducendo il paziente a frenare, anche bruscamente, il suo percorso maturativo e a bloccare ogni compito evolutivo personale e sociale: la persona si isola, si chiude in casa, disimpara a lavorare, a studiare, a frequentare gli amici, a contattare i partners, ad interessarsi di aspetti creativi: entra in una circolarità “viziosa” nella quale esiste solo il disagio ed i sintomi, ultime vestigia di una comunicatività divenuta impossibile, residui tossici privi di significato, quasi come se alcune parti della mente fossero morte o danneggiate. Ciò che sembra avvenire è che il paziente e, molto spesso, la sua famiglia non sono più in grado di leggere la realtà ed interagire con essa, come se la storia di cui sono portatori non consentisse di procedere oltre: qualcuno si ferma ai compiti adolescenziali fermandosi sul bordo della vita adulta o molto prima (studi, servizio militare, primi compiti sociali, lavoro, affetti, sessualità); qualcuno sembra andare oltre: sostiene i primi esami universitari, o si laurea, o si sposa, mette su famiglia, lavora più o meno stabilmente, ma all’improvviso sembra non riuscire più a sostenere i propri compiti e i propri ruoli. Queste storie familiari, inoltre, contengono sempre dei traumi antichi o recenti: lutti, separazioni, trasferimenti, fallimenti economici, tradimenti, eventi incomprensibili e improvvisi, tentativi emancipativi andati a vuoto, frustrazioni-castrazioni-umiliazioni-vergogne non metabolizzate, etc.. L’aspetto che invariabilmente, in tutte queste storie, è evidente agli occhi dell’osservatore o del terapeuta è che quello che appare incrinato e compromesso è proprio il passaggio dell’individuo tra il mondo familiare e quello sociale, un passaggio - un ponte crollato - che non consente più gli attraversamenti che in precedenza sembravano più agevoli tra i due mondi. Il paziente “cade” o “recede” all’interno di una monoappartenenza che coincide con la propria storia familiare divenuta insufficiente nel raccontare il mondo o parti essenziali di esso. L’individuo (e la sua famiglia) non maneggiano più (o non hanno mai maneggiato) i codici socio-culturali e si vedono costretti a raccontare una storia molto semplificata di se stessi e della realtà circostante; il paziente, dal canto suo, tenta di raccontare un’altra storia, la sua storia, una storia che disperatamente salvi le “capre” della sua appartenenza e della sua pesante storia familiare e i “cavoli” dei suoi desideri emancipativi al di fuori del modo familiare. Ma questo tentativo segna l’inizio della “malattia” poiché la capacità simbolopoietica dell’individuo risulta a questo punto in larga misura carente o impossibilitata a svolgersi, e la storia che ne vien fuori è spesso una teoria alternativa alle codificazioni sociali (delirio), o una non-storia fatta di silenzio e di non-senso (depressione), o una storia estremamente conflittuale nella quale non c’è posto per il narratore (disturbo di personalità). Viene a mancare dunque un’autentica multiappartenenza dell’individuo, viene a mancare cioè una “sana dieta mentale” che consenta di integrare gli “alimenti” e di nutrire la mente dell’individuo con cibo opportunamente scelto al di fuori della cucina di casa. Il lavoro della CT diventa allora quello di riattivare e rivitalizzare quei processi interrotti dalla malattia, che nell’ottica qui utilizzata, corrisponde a lavorare intensamente con le famiglie degli ospiti di CT affinché si rimettano in circolo ed in collegamento quelle storie sepolte o se-cluse che sono alla base dei problemi del membro familiare e che permetta ad esso di muoversi attraverso altre appartenenze con un maggiore grado di libertà. È possibile immaginare diverse situazioni in cui avvenga l’ascolto dei temi e delle storie familiari:

· incontri periodici con le singole famiglie alla presenza dell’ospite; la finalità esplicita di questi incontri può essere variamente definita a seconda della famiglia, ma ribadendo in ogni caso l’interesse e focalizzando l’attenzione sulla storia, remota e attuale, della famiglia, come aspetto importantissimo e imprescindibile del lavoro terapeutico;

· incontri periodici con il solo gruppo dei familiari degli ospiti (senza la presenza degli ospiti); una sorta di “comunità parallela” di parenti che si costituisca come gruppo autonomo che nel tempo acquisisca la capacità di confrontarsi, di raccontarsi e di sostenersi;

· incontri periodici con tutti i familiari e tutti gli ospiti secondo il modello di Garcia Badaracco (modello che a mio parere risulta essere difficilmente esportabile).

Tale lavoro può essere svolto dunque in molti modi e con molte tecniche (gruppoanalitiche, psicodrammatiche, psicoanalitiche, sistemico-familiari, etc.), ma ciò che più conta è mantenere la tecnica e le finalità terapeutiche “dirette” sullo sfondo: gli incontri dovrebbero avvenire in un clima di accoglienza, cordialità, collaborazione e informalità, senza cioè che le famiglie sentano in alcun modo di essere sottoposte ad interventi terapeutici o peggio ancora a processi sommari (ricordiamo infatti che la “domanda terapeutica” che la famiglia fa su se stessa è quasi sempre formalmente assente, proprio perché totalmente focalizzata su un solo membro). È importante quindi che vi sia da parte dei conduttori una grande capacità di empatia oltre una grande pazienza e rispetto per le difficoltà dei familiari: una presenza “leggera”, ma comunque attenta e orientante.

 

 

continua

 

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